Quest'uomo nacque nel 1617; fu per vario tempo un bandito, un uomo fuor dalla legge. Ma quando le leggi sono inique, la giustizia ceca, la bontà impotente, chi cerca di vivere e di far vivere fuori dalla loro atmosfera di morte, cioè un bandito, può essere un eroe, perché l'eroe non è solo il coraggioso che per una luce di bene sopporta ogni dolore, ma è altresì e soprattutto colui che tenendo alta la sua fiaccola d'idealità attrae intorno a sé e guida altri fedeli.
In tale molteplice senso è veramente un eroe Gianavello, che, se non fosse vissuto fra persecuzioni e martiri, sarebbe rimasto probabilmente un contadino intelligente e pio, e se fosse stato posto in condizioni opportune, sarebbe senza dubbio diventato un gran generale.
Da un suo contemporaneo così ci è presentato: statura media, struttura robusta e vigorosa, capelli neri corti e ricciuti, breve barba nera, occhi intelligenti e vivaci, espressione cordiale aperta e risoluta. Viveva serenamente, con la moglie Caterina Durand di Rorà, nella sua casa rustica che ancora vi resta. Il luogo allora si chiamava Liorato.
Immaginiamolo nel periodo in cui la grande tempesta delle "Pasque" si avvicina. Egli ha allora 37 anni. Con la sua antiveggenza è intento a scrutare nelle avvisaglie mentre tutto ancora intorno sorride e il popolo valdese non vuole sospettare e prepararsi al pericolo.
Il 25 gennaio 1655 in un aspro inverno s'incomincia: ecco l'ordine perentorio del governatore Gastaldi: abiurare o ritirarsi sui monti. Nessuno abiurò e tutti abbandonarono le case per ritirarsi in montagna. Gianavello con la famiglia andò a Rorà probabilmente in casa della moglie.
Una mattina, presentendo l'agguato e il tradimento del Pianezza, egli sale con sei uomini armati verso Pian-prà: è la mattina del "sabato santo 24 aprile". La tempesta si scatena: egli si getta nei boschi e di lì, con solo sei uomini, valendosi delle posizioni preminenti da essi ben conosciute, con armi, con astuzia e con forza, facendo ruinare sui nemici valanghe di sassi respinge settecento nemici che stanno avventandosi verso le alture. Poi con altri undici compagni ne respingono 2000. I nemici salgono da tre parti; ancora sono respinti con loro tragiche perdite nel Vallone della Luserna; ma il piccolo villaggio del Rumè più remoto dove è corsa a ripararsi quasi tutta la gente di Rorà, dopo 10 giorni è aggredito. Sono oramai 15.000 armati che hanno sommerso la valle, invaso, straziarto: la moglie e le figlie di Gianavello afferrate, diverranno preziosi ostaggi; la sorella Margherita, sorpresa mentre stava allattando, si getta a coprire il suo piccino col proprio corpo, ma un colpo d'alabarda alle spalle l'uccide; il bambino, ritrovato dopo tre giorni sotto il corpo materno, dal padre- il Garnier- è vivo; e sopravviverà.
Gianavello mette in salvo il suo ragazzo di sette anni andando nel Queyras, in territorio francese, ma presto ritorna. Respinge nobilmente e sdegnosamente la salvezza delle sue donne offertagli in cambio della rinuncia della sua fede e alla lotta: egli sa che "vita o morte sono nella mani di Dio".
La resistenza si rafforza e si centre al Vernè dall'altra parte della Val Pellice. Quivi si incontrano Gianavello e l'ardito capitano Bartolomeo Jahier e si organizza un esercito il quale compie degli atti che hanno del prodigioso. Fatto sempre più ardito non si limita alla difesa, ma scende ad attaccare fino i paesi di pianura; assale San Secondo, Bricherasio, Luserna, Torre Pellice. Ed ecco che il 18 giugno, Gianavello al Ciabàs è ferito in una disperata difesa pur terminata vittoriosamente e il Jahier, quella stessa notte, è ucciso a Osasco.
Sono giorni tremendi per il piccolo esercito privato dei suoi meravigliosi animatori, pure non si abbatte; si ritira sulla Vaccera dove lo raggiungono aiuti dalla Francia e dalla Svizzera, e Gianavello il 12 luglio, appena ristabilito, può assistere al definitivo combattimento, dopo il quale i persecutori offrono una tregua. La pace è poi segnata a Pinerolo col nome di "Patenti di grazia".
E' elargita completa amnistia ai combattenti e Gianavello può tornare alla sua casa di Liorato con la sua famiglia restituitagli.
Si poteva ora riprendere la vita di un tempo.
Ma il trattato di pace non fu rispettato e le grida di dolore e di ribellione per le ingiustizie e gli affronti, che tornarono ad alzarsi da ogni parte, mossero Gianavello ad erigersi protettore degli oppressi, giustiziere e rivendicatore dei diritti del suo popolo. E ricominciò la guerriglia. Citato al tribunale di Torino non vi andò, fu perciò condannato a morte in contumacia e così diventò un bandito. Attorno si strinsero altri condannati per simili ribellioni e fu "la guerra dei banditi".
Si giunge al 1663: dal luglio al gennaio successivo, la guerriglia è ormai guerra e si concluderà con una pace (18 febbraio 1664) che, pur raccogliendo il frutto di tanto soffrire coll'assicurare circa venti anni di pace alle Valli, lascerà molte amarezze. Giosuè Gianavello è costretto con 43 compagni a subire l'esilio e la confisca dei suoi beni e altresì -maggior dolore per lui- l'apparente sconoscenza del suo popolo che in quel momento è indebolito e stanco.
Un quadro commovente ci è descritto da un suo contemporaneo; Gianavello, che seduto, la testa reclinata, il volto quasi coperto dal cappello abbassato, ascolta le lamentele e addirittura i rimproveri dei suoi ingrati fratelli per il suo operato. Questi infatti, assetati di pace e disposti a tutte le rinunce per ottenerla (salvo la rinuncia alla loro fede) dichiarano di non sdegnarsi della richiesta del Duca che impone per la pace l'esilio di Gianavello e dei suoi eroici compagni (pace che ha la breve durata di 20 anni dopo i quali essi torneranno ad usufruire dei preziosi servizi del loro condottiero). Gianavello si alza ed esce senza parole; è deciso, andrà in esilio; egli sa dove trovare giustificazione e conforto, nella sua fede incrollabile; e non si permette rancori e recriminazioni
Il 18 febbraio 1664 passava il Colle Giuliano e attraverso la Savoia s'avviava a Ginevra. Egli aveva allora 47 anni. Nel 1670 lo raggiungeva la coraggiosa moglie.
Il sereno agricoltore, il vignaiolo, l'apicultore, l'invincibile guerriero di Pian-Prà e del Vernè, il Bandito di Rocca Berra diventa l'umile, maturo libraio, che sa tuttavia trasformare la sua propria bottega in cenacolo dove si danno convegno nobili amici ginevrini e sospirosi esuli valdesi, i quali non possono dimenticare la patria.
Più tardi (1686) Gianavello raggiunto da Arnaud, dopo aver accolto al Ponte dell'Arve i miseri avanzi del suo popolo- divelto tutto intero dalle Valli italiane- mediterà e scriverà le " Istituzioni per il superbo Rimpatrio" nelle terre avite, che avverrà nel 1690. Tali Istruzioni ne furono il programma e la guida. In esse egli consiglia minutamente circa gli ostaggi, il vettovagliamento, la preghiera da farsi mattina e sera, la formazione delle compagnie, l'ordine di marcia, le soste, gli accampamenti, le migliori posizioni della Valle il modo di occuparle e di tenerle. Raccomanda particolarmente la Balziglia. "Non risparmiate né lavoro né fatica per fortificare quella posizione che sarà la vostra fortezza più salda".
Sembra che tali Istituzioni, lodate da Napoleone come documento insigne di scienza militare; siano ancora in questo secolo un testo di "guerra di montagna" studiato nella Scuola Militare di Modena.
La casa di Liorato, diventata oggi Museo, era stata occupata da una famiglia di cattolici di Bagnolo, ma la figura del "Gran Barba", come fu chiamato dai nemici, rimase scolpita in modo incancellabile nei muri vetusti, nella terra, nella memoria della gente antica e nuova, tanto che da più secoli il nome "Liorato è caduto in dimenticanza: "da allora casa e vallone hanno assunto il nome di "Gianavella" insospettato, indistruttibile momunmento all'eroe"
(Attilio Jalla. Gianavello)
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