lunedì 10 giugno 2013

Solo a Dio appartiene il Regno

Salmo 22

Grossi tori, potenti tori di Basan, aprono la loro gola contro Cristo, come un leone rapace e ruggente. Una folla di malfattori lo attornia forandogli le mani e i piedi; spartendo fra loro le sue vesti e tirando a sorte la sua tunica. Deve subire "l'assalto del cane, la gola del leone, le corna dei bufali".

A partire dal versetto 22 la scena cambia: nasce la lode in mezzo all'assemblea; c'è cibo in abbondanza per gli umili, lode, vita in eterna e adorazione; e poi la sovranità di Dio, quella che i nostri occhi spesso non riescono a contemplare perché guardano all'apparenza di ciò che il diavolo vuol far credere. Quando il diavolo porta il Signore Gesù con sé sopra un monte altissimo mostrandogli tutti i regni del mondo e la loro gloria gli dice: "Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni; poiché essa mi è stata data, e la do a chi voglio io, se tu dunque ti prostri ad adorarmi sarà tutta tua".Gesù gli rispose. Sta scritto: "Adora il Signore, il tuo Dio, e a lui solo rendi il culto" (Luca 4:6;8). Riconoscendo in questo modo automaticamente che il regno appartiene a Colui che regna e al quale va l'adorazione: "Poiché al Signore appartiene il regno, egli domina sulle nazioni. Tutti i potenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendono nella polvere e non posssono mantenersi in vita s'inchineranno davanti a Lui". (Salmo 22:28,29).

Solo a Dio, al vero Dio va l'adorazione e davanti a Lui solo, al quale appartiene il regno, bisogna inchinarsi!

Alla Balziglia!....Di fronte ai tori e ai leoni la scena cambia in lode e riconoscenza. "Al di sopra del villaggio della Balziglia, all'estremità settentrionale della Valle S. Martino, si erge il contrafforte dei cosidetti "Quattro Denti": sono quattro enormi rupi scaglionate. 
Sulle piattaforme di questi formidabili bastioni naturali, sovrapposte le une alle altre, i reduci valdesi lavorarono febbrilmente a costruire trincee, percorsi coperti, fossi, parapetti e ottanta baracche. Era una magnifica fortezza naturale, in cui Arnaud ed i suoi trecentosettanta compagni si accinsero a passare l'inverno. Fin dai primi giorni dopo il loro arrivo, i francesi avevano tentato invano di prenderla d'assalto; onde al cader della prima neve s'erano ritirati, gridando minacciosamente: "Ci rivedremo a Pasqua!"  
Allora il mattino del 14 maggio, il fuoco incominciò intenso e violentissimo. I due cannoni rovesciarono una tal tempesta di ferro contro le trincee valdesi, che prima di mezzogiorno i parapetti e gli altri lavori di difesa erano smantellati. Cessata l'azione dell'artiglieria, i francesi, da tre lati, si scagliarono all'assalto della parte inferiore delle fortificazioni, detta il "Castello", mentre altri riuscivano a penetrare anche nelle trincee superiori. I difensori, lottando come leoni, si videro costretti a ritirarsi salendo di muro in muro e di roccia in roccia, fino alla grande rupe centrale, detta il "Pan di Zucchero", a motivo della sua forma caratteristica.  
Quivi, protetti da una densa nebbia che improvvisamente era scesa ad avvolgerli, sostarono per deliberare sul da farsi. Avevano perso non più di una mezza dozzina di uomini, ma oramai si vedevano accerchiati in modo tale che ogni possibilità di evasione era da escludersi, e quell'estremo loro riparo sarebbe stato indubbiamente espugnato all'alba dell'indomani; nessuna speranza, dunque, di sottrarsi all'estremo supplizio che il nemico, irritato da così ostinata resistenza, aveva loro permesso!  
Frattanto era calata la notte ed i soldati francesi avevano acceso qua e là dei fuochi, formando come una corona luminosa attorno alla rocca dove i combattenti valdesi si erano rifugiati. Allora uno di questi, il capitano Filippo Tron Poulat, uno dei duecento invincibili del 1686, che era natio della Balziglia e conosceva quei luoghi palmo a palmo, dopo aver attentamente osservato i fuochi dei bivacchi nemici, si volse ai suoi compagni e disse che forse ci sarebbe modo di passare, col favore delle tenebre, fra due corpi di guardia, strisciando su di una roccia fortemente inclinata, al di sopra di un orribile precipizio.  
Era una via pericolosissima, ma non ne vedeva altra e, con l'aiuto di Dio, poteva essere la via della salvezza. Decisero di seguire Tron Poulat. Ad uno ad uno i trecentosessanta in fila indiana, silenziosi come ombre, uscirono dalla rocca, lasciando accese molte luci per trarre in inganno il nemico. Era tanta l'oscurità di quella notte, ancora accresciuta da una nebbia provvidenziale, che, per maggior sicurezza e per evitare il minimo rumore, camminavano scalzi, seguendo la loro intrepida guida.  
Giunti al passo pericoloso, dove conveniva strisciare in ginocchio o seduti sulla roccia inclinata aggrappandosi con le mani alle sue sporgenze, uno di essi, stendendosi, lasciò cadere una pentola, la quale si mise a rotolare, rimbalzando fragorosamente giù nella valle silenziosa. "Chi va là?", gridò una sentinella dal vicinissimo posto di guardia. I disgraziati rimasero impietriti, trattenendo il fiato; e neppure la pentola, osservava scherzosamente Arnaud, rispose all'intimidazione francese, perché non era di quelle che, secondo le favole dei poeti, davano responsi alla foresta di Dodona.  
Onde, la sentinella pensò: "Mi sarò ingannato", e regnò di nuovo il silenzio. Ripresero con mille precauzioni a strisciare nella notte fra precipizi, finché all'alba, quando le trombe francesi squillarono il segnale dell'attacco all'ultima ridotta della Balziglia, i nostri fuggiaschi erano oramai fuori dalla portata dei due cannoni del Feuquières e delle imprecazioni dei suoi soldati; i quali, allorquando dalle vuote trincee in cui si erano precipitati, li scorsero arrampicati lassù, sulle lontane creste nevose dei monti che separavano il vallone del Ghinivert da quello di Susa, non poterono far altro che tendere i pugni verso quei barbetti sfuggiti miracolosamente alla loro stretta; cioè, tentarono bensì di raggiungerli e li inseguirono accanitamente tutto quel giorno, ma invano!  
Era il 15 maggio, quel giorno il comandante di Feuquiéres, il quale aveva predetto gli eventi annunziando la sera innanzi come già avvenuta la capitolazione dei Valdesi, dovette scrivere di nuovo al ministro Louvois per spiegargli come le cose fossero andate diversamente: "Ne sono molto dispiacente, Monsignore, ma in verità non ne ho colpa. Bisogna prendersela con queste rocce..., con questa nebbia!" La colpa fu dunque della nebbia. vero è che i soldati, sbalorditi, non erano alieni dal credere che Arnaud fosse un mago e che avesse trasportato su nelle nubi i trecento compagni, con armi e bagaglio...eccezion fatta di una certa pentola, ritrovata da qualche soldato francese.  
uanto ai Valdesi, pensarono una volta di più con commossa gratitudine alla protezione della divina Provvidenza."
L'autore di questo testo citato, Ernesto Comba. (1880-1959) era insegnante alla Facoltà Valdese di Teologia e volle applicarsi a narrare la storia del suo popolo, e lo fece con l'animo commosso di un credente.

Generazioni di Valdesi a queste pagine si sono esaltate per le grandi liberazioni del Signore, ed hanno nutrito di ideali la loro vita. Esprimiamo che il voto di questo libro (Breve storia dei Valdesi) trovi anche nella ideale biblioteca delle nuove generazioni un suo posto, e ravvivi in esse la forza di una tradizione che è soprattutto fiducia e certezza di una missione da compiere. (La Claudiana Editrice).

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